sabato 19 settembre 2015

LA SETTIMANA



E' proprio finita.
Domani alle 18 i due ultimi salvavidas termineranno una stagione iniziata il 1 maggio.
Quando facevo il Capo Villaggio, l'ultima canzone dell'ultima sera di lavoro era sempre “The End” dei Doors.
A quel punto mi sedevo sul palco, da solo, guardavo l'anfiteatro oramai vuoto pensando a tutte le serate, gli spettacoli, le donne e le storie vissute in quei mesi insieme ai miei compagni.
Dentro di me una sensazione di missione compiuta.
Terza settimana di apertura della palestra, le cose vanno abbastanza bene, la gente arriva, la notizia che in citta' ci sono nuovi sceriffi sta' girando.
Visto che l'esperienza mi ha insegnato che dove c'e' figa c'e' gente da domani, dopo quella d'apertura, parte la “Promozione Pilu”.
Le donne pagano di meno, esattamente come gli under 18 e gli over 60.
Io avrei fatto proprio il manifesto con Cettola ma, al di la' di non avere il consenso di Albanese....mi sembrava un messaggio un filino forte....
Almeno per il primo anno.
Alla fine il torneo di calcio con i gaelici e' saltato, ieri partita coi Villans con cena in una location pazzesca, a pochi metri dalla reggia di Venaria.
Ho corso come un matto, a fine partita stavo bene...ma questa mattina il risveglio e' stato come quello di Eduardo in Natale in casa Cupiello....
Birillo cresce, 12 kg e un bel carattere, per essere un beagle non e' neanche troppo terrorista.

Malago' in settimana ha visitato i ruderi del Filadelfia, assicurando l'appoggio “morale” del Coni e dando la sua disponibilita' ad inaugurare il nuovo Fila quando sara' pronto.
Figuriamoci se un politico si perde un'inaugurazione...
Verso meta' o al massimo fine ottobre dovrebbe essere posato il primo mattone per la ricostruzione del Tempio che, ricordo sempre, non e' solo la casa del Toro ma patrimonio di questo paese per cio' che ha rappresentato nel dopoguerra e poi dopo, per essere il luogo dove la piu grande squadra mai esistita al mondo ha giocato.

C'e' questa polemica sull'aprire o meno i negozi la domenica.
Giaveno, essendo zona turistica, ha risolto il problema, qua' ogni domenica mattina e' quasi tutto aperto, anche in inverno.
Capisco le esigenze e rispetto i diritti di chi lavora ma i negozi devono essere aperti quando la gente puo' andarci.
Solo a Cuba tutto chiude alle 5 del pomeriggio, secondo me, da noi, dovrebbero essere aperti, ovviamente con festivo pagato per chi lavora.

Torino e' una citta' incredibile dove e' vero tutto e il contrario di tutto.
Da un lato una famiglia che, aderendo ad un progetto semestrale del comune, si tiene in casa un profugo della Guinea, dandogli, da subito le chiavi.
Il ragazzo si e' comportato benissimo e ha anche trovato un lavoro in un bar, una bella storia finita bene.
Dall'altro lato c'e' un idiota di taxista che lascia a piedi Pancalli, davanti al comune di Torino perche' non voleva caricare in auto la sua carrozzina da disabile.
La cosa e' diventata nota perche' Luca Pancalli e' il presidente dello sport paraolimpico italiano, se fosse stato un pinco pallino qualunque questo episodio di stupidita', uno dei tanti, sarebbe passato in cavalleria.

La “buona gestione” del precedente governo regionale piemontese della Lega ha lasciato un buco da 5 milioni di euro, buona parte dei quali senza giustificazione.
Avevo gia' raccontato di Cota, l'ex presidente, che mentre era in visita in Giappone riusciva a farsi rimborsare, dalla regione, le spese di costosi ristoranti torinesi.
Eh si....e' proprio Roma ladrona....

10 commenti:

  1. È delle ore 10 la notizia che davanti al Colosseo s’era formata la fila, di mezzogiorno in punto l’annuncio del ministro che il governo sarebbe intervenuto con un decreto. Cronometro alla mano, centoventi minuti sono stati sufficienti per adeguare il diritto di sciopero e le sue regole laddove in altri tempi non sarebbero bastati mesi e anni di sterili discussioni. Il piglio decisionista di Renzi emerge dalla vicenda come forse mai prima d’ora. Nella realtà, però, quella del blitz maturato ieri mattina, magari sull’onda dello sdegno collettivo per la brutta figura dell’Italia, è vera solo in parte. Piccolissima. Chi sa come sono andate realmente le cose conferma che la pistola del decreto era già nel cassetto, carica. Pronta a sparare in qualunque momento il governo vi fosse stato costretto. Le tre righe in un solo articolo, che modificano la legge 146 del 1990, sono state scritte e discusse nei giorni precedenti, come è normale in questi casi. Trattandosi di provvedimento d’urgenza, il Capo dello Stato è stato avvertito in anticipo, anche qui secondo prassi come confermano le fonti ministeriali. Non è noto a che ora, esattamente, sia avvenuta la comunicazione. Ma sebbene i contenuti dei colloqui quirinalizi siano coperti da rigoroso riserbo, a nessuno è sfuggita la visita che Franceschini aveva reso al presidente della Repubblica giovedì, quando i notiziari locali già segnalavano il rischio (non ancora divenuto certezza) che l’indomani vi sarebbero stati scioperi e assemblee in tutti i principali musei romani all’aperto, dal Colosseo al Palatino agli scavi di Ostia antica. Se sul Colle se ne fosse parlato, non ci sarebbe nulla di sorprendente.
    Mossa preparata
    Più che nella prontezza dei riflessi, il vero merito del governo (e del ministro in particolare) consiste dunque nel non essersi fatto cogliere alla sprovvista. Di aver studiato le contromosse per tempo, fin dallo sciopero del 24 luglio a Pompei che scandalizzò il mondo. Già allora il ministro aveva messo i sindacati sull’avviso, «con questi comportamenti rischiate di danneggiare il Paese e anche voi stessi» aveva detto, che tradotto nella lingua di tutti i giorni si traduce in una sorta di preghiera o di ultimatum: non fatelo più. Franceschini è uomo di sinistra, le sue radici politiche affondano nel popolarismo cattolico, figurarsi se è sordo alle buone ragioni dei lavoratori. Conosceva le richieste dei sindacati, si stava battendo per mettere in piedi un meccanismo automatico di retribuzione degli straordinari, aveva quasi convinto gli altri protagonisti del cosiddetto concerto inter-ministeriale, era ragionevolmente fiducioso di portare a casa il risultato nella prossima legge di stabilità. Quel che più conta, Franceschini ne aveva informato passo dopo passo i sindacati, dunque si sarebbe aspettato da parte loro un atteggiamento serio e responsabile. Per questo le assemblee, i disservizi, i turisti in fila sotto il sole, gli hanno fatto ancora più male.
    Blitz dal treno
    La conferma dello sciopero è arrivata a Franceschini mentre stava viaggiando da Bologna in direzione Roma. Una telefonata di corsa a Renzi, un’altra più lunga al presidente della Commissione di garanzia che vigila sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali, Alessi. E subito dopo la dichiarazione di guerra: basta così, la misura è colma.

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  2. paolo mastrolilli
    inviato a Santiago de Cuba

    Fidel lo chiamavano «bola de churde», palla di sporcizia, perché distratto da troppe altre cose, non trovava sempre il tempo di lavarsi a dovere. Raúl invece «la pulgita», piccola pulce, non tanto per le dimensioni del corpo, quanto per come stava sempre appiccicato al fratello. Ma la cosa sorprendente è che ormai queste storie non le nasconde più nessuno a Santiago, la «ciudad rebelde siempre» dove tutto è cominciato e tutto potrebbe chiudersi.
    In un cerchio che ruota intorno al Colegio de Nuestra Señora de los Dolores, il collegio dei gesuiti dove sono cresciuti i fratelli Castro.
    Attaccato come una pulce
    Angel, il padre, era un proprietario terriero ricco ma rude, e per far entrare i figli nell’alta società di Santiago aveva scelto la scuola più prestigiosa, quella che preparava l’élite di Cuba. I gesuiti l’avevano fondata nel 1913 e i loro alunni, come i membri di un club riservato, si chiamavano «dolorinos». Fidel ci entrò nel 1938: lui, il fratello maggiore Ramon e il minore Raul, erano tra i 22 allievi privilegiati che vivevano nel collegio. Parlando con Frei Betto, lo stesso Líder Maximo non ha nascosto debito e ammirazione: «Era una scuola di gente più rigorosa, preparata, con vocazione religiosa molto più forte. In realtà, erano persone con maggior dedizione, capacità e disciplina, incomparabilmente superiori. A mio giudizio, era la scuola dove volevo entrare».
    Fidel, secondo la ricostruzione di Patrick Symmes nel libro «The Boys From Dolores», non era il primo della classe. José Antonio Cubenas, figlio di un’altra famiglia notabile di Santiago e suo rivale in tutto, lo batteva sempre di qualche voto. Però era il secondo, e non perdeva mai l’occasione di leggere un libro in più. Esuberante sì, ma mai pigro. Anzi, i suoi nemici come Cubenas, che è andato in esilio a New York e ogni anno si incontra a Miami con i «dolorinos» sopravvissuti, rimproverano ai gesuiti di avergli insegnato troppo bene la disciplina militaresca che poi ha usato per vincere la rivoluzione. Fidel era vorace: studiava, leggeva, organizzava, arbitrava e commentava le partite di baseball, portava sempre la bandiera del collegio nelle amate escursioni sulla vicina Sierra Maestra, dove poi non a caso avrebbe basato la sua guerriglia. Una volta scrisse al presidente Roosevelt, per complimentarsi della rielezione: «My good friend Roosevelt, I don’t know very English, but I know as much as to write to you». La Casa Bianca gli rispose, senza però inviargli il biglietto da 10 dollari che Fidel aveva chiesto, urtandolo assai. Del resto Fidel, suggestionato dal padre ex soldato, tifava per gli spagnoli nella guerra contro gli Usa, leggeva i discorsi di Mussolini, e quando Hitler invase la Polonia celebrò così: «Non rimane nemmeno un aereo polacco. È la nostra prima vittoria».
    Fu proprio una litigata con Cubenas che mise fine a questa storia. Fidel aveva colpito involontariamente un ragazzo con la mazza da baseball, Jose Antonio lo aveva sfidato a pugni, e quando padre Sanchez li aveva separati, Castro le stava prendendo per la prima volta in vita sua. Così, per avere il diploma fu costretto a trasferirsi in un altro collegio gesuita, il Belén, a L’Avana.

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  3. Solidarietà gesuita
    Il legame però non si è mai spezzato. Dopo l’assalto alla caserma Moncada, 850 metri di distanza dal Colegio de Dolores, dove il 26 luglio del 1953 Fidel fece il primo tentativo di rivoluzione, fu grazie all’intercessione del rettore della sua ex scuola che i militari di Batista si impegnarono a catturarlo vivo e processarlo: «Condannatemi pure - disse lui -, non importa. La storia mi assolverà». Nel novembre del 1958, quando era tornato sulla Sierra Maestra a fare la guerriglia, un insegnante del collegio, padre Guzman, andò a trovarlo, fra le proteste dei genitori degli alunni che non volevano un professore comunista.
    Una mattina di febbraio del 1961, però, la campanella del Colegio de Dolores suonò come mai prima. Quando gli studenti si riunirono nel cortile, il Padre Perfetto tenne un discorso di cinque parole: «Andate tutti a casa, ora!». Poco dopo arrivarono le guardie, perquisirono l’edificio e misero i lucchetti. Il 17 settembre dello stesso anno, con la scusa di una sparatoria avvenuta durante la processione della Virgen de la Caridad, tutti i gesuiti non cubani furono caricati sulla nave Covadonga ed espulsi. «Questo - ha scritto Symmes - faceva parte dell’essere gesuiti. La storia però ha insegnato che sarebbero tornati a Cuba, un giorno».
    Oggi il magnifico edificio grigio del Colegio, tre piani con archi e volte in stile coloniale, ospita una scuola che prepara gli studenti all’esame per l’università. Invece di intitolarla ad un eroe della rivoluzione, l’hanno dedicata a Rafael Mendive, filantropo ottocentesco, amico del prete Felix Varela e insegnante del padre dell’indipendenza José Martí. Ad inaugurala nel 2006, dopo la ristrutturazione, è venuto Ramon Castro.
    Maria, la signora che sta all’ingresso, mi conduce con orgoglio nella «sala storica», dove sono appese le foto di Fidel, Raul e Ramon in divisa, Fidel nella banda del Colegio, Fidel che alza sorridente il vessillo «Dolores». «Ora che viene il Papa - dice Maria - in piazza ci saranno migliaia di persone. Santiago è piena di cattolici, anche in questa scuola. La rivoluzione va bene, ma la fede è un’altra cosa. Non sono in contraddizione».
    Riaprire le scuole
    Francesco infatti viene anche per questo. Le scuole cattoliche hanno ripreso a funzionare a Cuba, ma sono tollerate, non riconosciute. Uno studente che prende il diploma viene accettato dalle università americane, ma non cubane. Il pontefice chiederà che questo cambi, e il ruolo dei cattolici nella formazione e l’istruzione sia accettato ufficialmente. Aveva visto giusto Symmes: i gesuiti tornano. Oggi, col Papa. E magari, se aveva ragione Graham Greene a credere nel miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, toccherà proprio ai «dolorinos» Fidel e Raul di riaprire le scuole dove avevano imparato cos’è un uomo.

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  4. Ho dovuto scrivere un tweet a tale mastrolilli e dirle che si scrive bola de churre no de churde con tutte le balle dicerie e cattiverie che mi tocca leggere su Cuba almeno ci risparmino gli errori di ortografia.un saluto. Dado

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  5. zHai fatto bene.
    La solita stampa italiota nei confronti di Cuba...

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  6. Dai che manca poco al tuo viaggio. Giuseppe

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    1. Poco...maomeno. 5 settimane che si annunciano intensissime.
      Mica vivo di truffe su e bay io....ahahahah

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  7. Mi sa che non hanno ancora spiegato ai cubani che i cattolici vanno predicando l'astinenza dal sesso pre-matrimoniale.


    Bola de churde... AHAHAHAHAHAHAH!!

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  8. Il lungo viaggio di Papa Francesco - prima a Cuba, poi negli Stati Uniti - ha prodotto effetti già prima della partenza. Barack Obama e Raul Castro si sono parlati al telefono poche ore dopo una nuova mossa di Washington verso il disgelo, con l'allentamento delle sanzioni verso l'Avana. Il Ponteficie è partito poco prima delle 11 da Roma Fiumicino, e atterrerà a L'Avana - dove sarà ricevuto da Raul Castro - intorno alle 22 ora italiana.
    Il viaggio, che durerà fino a lunedì 28, porterà papa Francesco prima a Cuba (all'Avana, Holguin e Santiago) e poi negli Stati Uniti (Washington, New York, Filadelfia). È il suo decimo viaggio all'estero, e anche il più lungo del pontificato. Uno dei momenti più attesi è previsto per domani quando Francesco celebrerà messa nella Plaza de la Revolucion della capitale cubana.
    La telefonata Obama-Castro. Nella chiamata il leader cubano e il presidente degli Stati Uniti hanno elogiato il ruolo del Papa senza il quale, probabilmente, i nuovi rapporti diplomatici non sarebbero stati neppure ipotizzabili. Obama in particolare ha sottolineato con Castro l'importanza di aver riaperto le reciproche ambasciate a Washington e L'Avana, nel corso dell'estate, ponendo fine di fatto a uno dei più dolorosi capitoli della Guerra Fredda. I due leader - spiega ancora la Casa Bianca - hanno discusso "sugli ulteriori passi da intraprendere".
    Un dialogo che Obama e Castro potrebbero continuare nei prossimi giorni incontrandosi faccia a faccia a New York, in occasione dell'Assemblea generale dell'Onu. I due leader infatti dovrebbero ritrovarsi al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite nella stessa giornata, il 28 settembre. Sarebbe quindi il terzo incontro tra i due presidenti dopo la storica stretta di mano ai funerali di Nelson Mandela in Sudafrica e l'incontro a Panama al vertice delle Americhe.
    Papa in video-collegamento con giovani Usa e Cuba. Alla vigilia della sua partenza per Cuba, papa Francesco ha registrato un videocollegamento ai giovani delle "scholas occurrentes" (la rete mondiale di istituti educativi nata su impulso del pontefice) trasmesso dalla Cnn spagnola. "Bisogna costruire ponti affinché ci sia una amicizia sociale", ha detto, rispondendo alla domanda di un ragazzo cubano sui danni che sta facendo l'embargo statunitense a Cuba, in particolare ai più poveri.




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