martedì 11 luglio 2017

PRODOTTI E SERVIZI



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Seguo con un certo interesse ogni iniziativa imprenditoriale, di ambito limitato, che gli stranieri cercano di attuare nella maggiore delle Antille.
Potrei dire che ho visto cose che voi umani....ma preferisco discernere su cio' che realmente e' verificabile.
Credo, anzi quelli che hanno studiato credono che, fondamentalmente, ci siano due modi di fare impresa.
Vendere prodotti o fornire servizi.
Nel primo caso, relativo a Cuba, si invia o si reperisce in loco un prodotto e lo si rivende creando, o cercando di creare, profitto.
Nel secondo caso si fornisce un servizio che materialmente puo' non essere sempre identificabile ma che collabora a risolvere numerosi problemi.
Nel primo caso, onde evitare che il prodotto finisca occorre fare un minimo di magazzino col rischio, a volte, di deperimento del prodotto stesso dilatando anche i tempi del rientro dall'investimento.
Pero' e' anche vero che se un prodotto non ce l'hai....non lo vendi.
Nel secondo caso si fornisce il servizio unitamente quando viene richiesto.
Il primo caso e' piu' semplice; si vede una sedia che piace e la si compera.
Il secondo piu' particolareggiato, e' importante anche chi questo servizio te lo vende in prima persona.
Il prodotto e' sotto gli occhi, il servizio spesso lo devi raccontare.
Il primo caso puo' comprendere molti negocios, da Agua y Jabon del buon Savina, al paladar gestito da italiani, i piano bar ecc...
Il servizio puo' essere il volo, l'acquisto di visa y seguro, M&S CASA PARTICULAR CUBA  ecc....
Cose differenti con punti in comune.
Il prodotto lo vedi....la cosa non si presta molto ad interpretazioni, ne' ci vuole “amici avavavava”, il tipo che vendeva gioielli poi diventato idolo dei Fichi d'India, per venderlo.
Se ti piace e te lo puoi permettere lo prendi, altrimenti lo lasci li.
Il servizio invece dipende anche molto da chi te lo vende, da come te lo sa vendere.
Personalmente, almeno per l'ambito limitato che seguo, sono molto piu' dell'idea che, oggi, sia preferibile vendere un servizio, sopratutto se puoi farlo dall'exterior.
Cuba e' la destinazione finale ma....ci mette becco il meno possibile con tutti i vantaggi che questo comporta.
Niente burocrazia, niente menate, nessuna ruota da ungere ecc...
Se poi, come accade con M&S i cubani riesci pure a farli guadagnare allora e' il massimo.
Il prodotto, almeno nella Cuba di oggi, e' un bel problema.
Potrei iniziare citando gli innumerevoli problemi per il reperimento di alimenti con cui deve combattere chi gestisce un paladar.
SE vai per vie ufficiali....non li trovi, se...passi da dietro rischi che ti aprano il frigo e ti facciano un mazzo cosi'...no es facil.
Questo se parliamo di prodotti reperibili in loco ma se hai negozi, e qua' puo' tornare utile il discorso Agua y Jabon e devi riempirli di merce che arriva da fuori ci saranno anche le battaglie campali con l'aduana per riuscire a far sdoganare quello che arriva, battaglie che si vincono soltanto con buoni agganci e borsillo a fisarmonica.
Ogni volta che vado a Tunas non manco mai di portare una grossa fetta di parmigiano per il mio amico che ha la spaghetteria, cosi' fanno altri amici per fare in modo che, un piatto di pasta, sia fatto come u' signuruzzu comanda come farebbe dire a Montalbano il buon Camilleri.
Quindi, secondo me, non sono ancora maturi i tempi per aprire un negozio di prodotti che arrivano dall'exterior mentre non vale la pena farlo per prodotti nazionali, ammesso che te lo facciano fare.
Non a caso funzionano bene parrucchiere, barbieri, manicure mentre arrancano le attivita' commerciali legati all'artigianato che, probabilmente, vista la gran massa di turisti potrebbero viaggiare bene a La Habana o a Trinidad....non certo a Las Tunas.
La scelta e' presto fatta, infatti noi abbiamo percorso questa strada,  fornire servizi lasciando perdere prodotti.

12 commenti:

  1. Essere del Torino non è una forma di ribellione fine a se stessa. Forse non è nemmeno una forma di ribellione vera e propria, forse è essere del Torino vuol dire essere del Torino e basta.

    Oggi ci appare come un atto ostinato e contrario perché mezza Italia tifa l’altra squadra torinese, ma non è affatto così. È innegabile, però, che essere del Torino non sia banale o monotono. Il Toro, per chi lo sostiene, è uno stile di vita. Nei Duemila, forse anche a causa delle alterne fortune delle squadre della città, questo particolare si è visto in misura minore, ma cinquant’anni fa parteggiare per il Toro o per la Juve significava appartenere a due mondi diametralmente opposti.

    I bianconeri erano la squadra della Fiat, i giocatori erano belli e vincenti, mai schierati politicamente se non di nascosto. Il Torino era già quello che la leggenda tramanda di bocca in bocca: l’estro, la sregolatezza, il genio. Quella variabile impazzita che spezza l’ordine delle cose.

    Il Torino era Luigi Meroni, lui sì che era un ribelle. Ma di Meroni, ormai, è stato già detto tutto. Assieme a lui negli anni Sessanta gioca in granata un figlio d’arte, il padre – ala sinistra negli anni Trenta – era stato nientedimeno che il giocatore più prolifico nella storia del Messina, e lo è tutt’oggi.

    Il figlio invece ha un ruolo meno poetico, il suo compito è fare legna in mezzo al campo e, quando capita, impostare la manovra. Si chiama Amilcare Ferretti, lo chiamano tutti Mirko. È nato ad Alessandria e ha iniziato a giocare tra la Sicilia e Canelli, per poi passare al Torino dove trova, per l’appunto Meroni. Tanto La Farfalla è bohemienne e sotto i riflettori, quando Ferretti è schivo e operaio.

    Si diverte a leggere i quotidiani, è uno dei pochi calciatori a informarsi sui giornali. Lo vedono spesso a leggere, ha sotto braccio Vie Nuove o L’Unità. Sono giornali molto vicini al Partito Comunista Italiano, che in quel momento vive una svolta: è morto Togliatti, il segretario diviene Luigi Longo, nel segno della continuità con il Migliore. Amilcare Ferretti detto Mirko è comunista e non lo nasconde, nel segreto dell’urna Dio non lo guarda e Stalin sì.

    Sul finire degli anni Sessanta si va ridefinendo la figura del calciatore. Il Torino ha un ruolo di primo piano, perché un calciatore non è più solo un giocatore, sta diventando un’icona. Se Meroni è il quinto Beatles, Ferretti è l’anima politica dello spogliatoio. Magari un po’ accigliato e severo, ma sempre deciso e orgoglioso. Non sbandiera la sua fede politica ai quattro venti, non fa aperture teatrali o retoriche, rimane sempre fedele alla linea – come farà per poco tempo un suo famoso omonimo, che in seguito però sposterà il tiro da Berlinguer a Benedetto XVI.

    Questo suo rimanere in disparte ma essere ugualmente decisivo segnerà la sua vita, passata principalmente a lasciare umilmente la scena ad altri. Nel Torino di Nereo Rocco è vice capitano, perché la fascia va sul braccio di Giorgio Ferrini, altra figura che incarna al massimo le virtù granata e sulla quale bisognerebbe aprire una sterminata bibliografia.

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  2. Il rapporto tra Ferrini e Ferretti è straordinario, sono entrambi esempi di attaccamento alla maglia. Addirittura lo storico capitano concede la fascia al compagno in qualche – rarissima – circostanza. Non mollano mai, soprattutto con la Juventus. Famoso è un siparietto in un derby del 1963 quando Ferretti viene colpito da Castano e Ferrini corre a dirimere il parapiglia. Poi, vabbeh, lo dirime a modo suo ma questo non conta.

    Diventa un simbolo del Torino pur rimanendoci solamente quattro anni, ma sono quattro stagioni di fervida passione, trincerata dietro alla figura di calciatore proletario, con il cuore – granata, rigorosamente granata – molto più a sinistra del normale. Una variazione sul tema per il calcio italiano e per la città, abituata allo strapotere della Fiat e al calcio rigoroso degli Agnelli in tenuta bianca e nera.

    Lo raccontano straordinariamente Michele Ruggiero e Alessandra Demichelis in “Una vita da secondo. Storia di Mirko Ferretti, l’allenatore nell’ombra“: Ferretti è il prodromo del cambiamento. Non a caso in quegli anni Sergio Campana fa nascere l’Associazione Italiana Calciatori. Amilcare detto Mirko si ritira nel 1967 con la maglia dell’Alessandria, quasi a farlo apposta per vivere appieno il ’68. E lì sì che il cambiamento avviene.

    Il suo personale punto di svolta avviene dopo aver tentato la sua carriera da allenatore in solitaria. Poco dopo aver vinto il campionato di Serie D con l’Albese, nel 1976 arriva una chiamata importante, è quella del Torino. Guida la Primavera del suo Toro, ci rimane due anni e poi ecco che inizia il magico sodalizio con Gigi Radice, che a Torino qualche ricordo l’ha lasciato. Fa il secondo al tecnico lombardo e rimane con lui quattro anni, condividendo le gioie granata e l’esonero al Milan, con in mezzo il Bologna.

    Sostituisce pure Radice quando questi è vittima del tremendo incidente in cui perde la vita Barison. Prende le redini per quattro giornate nel 1978-79 e conclude la stagione al quarto posto, un punto dietro alla Juventus. Anche in questo caso una piccola deviazione alla sua carriera da secondo, a suo agio nel dare i consigli a Radice e godersi la mimica del suo collega.

    Essere il vice però non vuol mica dire rimanere fermi, è un ruolo fondamentale, è il collante tra tecnico e squadra. C’è da sgobbare parecchio ma per Ferretti non è un problema perché lo faceva in campo e lo ha fatto per tutta la sua vita. La sua simpatia per il PCI gli causa non pochi problemi: verso di lui nascono pregiudizi e ostacoli. Non da parte del democristiano Rocco, che per tutta la sua militanza torinese non gli ha mai negato la maglia da titolare.

    C’è chi pensa che la sua fede politica gli abbia precluso molte possibilità. Di sicuro non lo ha aiutato, questo è poco ma sicuro. Ma Amilcare detto Mirko non ci pensa, e oggi a 82 anni ricorda sorridente il periodo granata, quando i calciatori si confessavano da lui, quando era suo il compito di tenere unito lo spogliatoio. In un calcio che stava per cambiare, Ferretti è stato un punto di riferimento per i tifosi di sinistra e per i fan del Toro in generale. Ha incarnato i valori del Torino e ha fatto scattare in molti l’amore per un colore, il granata, che rischiava di rimanere offuscato dal bianconero.

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  3. Nella mia ignoranza nel settore penso che ad oggi a Cuba l'unico modo per fare negocio sia quello che richiede il minor numero di materie prime, vista la difficoltà di approvvigionamento sull'isola...oggi l'unica soluzione è lavorare con un pc (nonostante i problemi connessi per connettersi ad internet), oppure lavorare con una casa de renta, ecc, vedrei rischioso anche il lavorare con un taxi, perchè per trovare pezzi di ricambio sono dolori, mentre per fare la peluquera o lo barbero bastano solo un paio di forbici e un pettine...e tanta voglia di lavorare ovviamente, cosa da non sottovalutare a Cuba.

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    1. Ti posso assicurare che se, con M&S, IO O Simone fossimo giù con un carro....gran bei soldi....

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  4. Preferisco essere un fruitore di entrambe le cose,nulla di più.
    Giuseppe

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  5. Se si riesce a vendere beni e servizi alla parte statale del turismo, oggi non é male, ma non é semplice arrivarci e comunque é cosa da azienda strutturata. Su opportunità per singoli onestamente non vedo nulla al momento di veramente interessante se non lavorare per qualche azienda estera in loco. Mat.

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  6. La cosa peggiore e' vendere prodotti a Cuba e....attendere i pagamenti alle Calendre Greche...

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    1. fuori dal turismo è verissimo. Dentro il turismo le cose stanno migliorando e siamo oggi stabilmente sui 120-180gg. Lo dico per esperienza diretta. Certo siamo sempre a Cuba con tutti i rischi sempre connessi ma gli ultimi 12 mesi sono stati particolarmente positivi e voglio attenderne altri 12 per poter confermare il trend in modo più certo. Il tutto sempre specificando che a Cuba è sempre più TURISMO vs TUTTO IL RESTO. Mat.

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    2. Se tieni conto che la Fiat paga i fornitori dai 240 gg in su...direi che e' una buona tempistica.

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  7. Il Presidente del Torino Urbano Cairo ha parlato da Milano, intercettato dai microfoni dei colleghi a margine della presentazione dei palinsesti di La 7 ha fatto il punto sul calciomercato granata: “Abbiamo cominciato a correre da lunedì, al raduno. La nostra è una società che ha già fatto molto, anche se sottotraccia. Abbiamo completato il riscatto di Iago Falque e preso due giocatori come Lyanco e Milinkovic-Savic di prospettiva. E’ rientrato inoltre Bonifazi ed è stato ingaggiato Sirigu dal PSG. Sicuramente qualche altra cosa andrà fatta…”.
    Su Belotti, poi – per il quale si vocifera una maxi offerta dal Chelsea: “Vediamo, non ho avuto comunicazioni in questo senso. Se si va dietro a tutte le notizie si perde la testa. Io so che Belotti è un nostro giocatore, è arrivato in tempo per il ritiro. E’ motivato e voglioso. Incontrerò Belotti per capire se è contento di rimanere al Toro. Lui è un nostro giocatore”. L’incontro ci sarà probabilmente in ritiro, a Bormio. “Comunque non è che devo parlare solo io. C’è un d.s. bravissimo, c’è il nostro allenatore, poi io parlerò appena avrò modo di raggiungere Bormio. È fondamentale che un giocatore dell’importanza di Belotti rimanga con noi non solo perché c’è un contratto ma perché è felice di farlo. È una cosa che va verificata, ma non ho motivo di dubitarne. Dead-line? Dobbiamo parlarne, dobbiamo stabilire un giorno d’accordo con il calciatore oltre il quale non si vada”. Ancora, su Baselli, Cairo conferma quello che poi avverrà di lì a pochi minuti e che vi abbiamo segnalato in contemporanea: “Tra pochi minuti firmerò il nuovo contratto con lui”.

    Infine, una battuta sui diritti TV: “Una eventuale partecipazione all’asta per i diritti tv del calcio? Mai dire mai. L’asta c’è stata ma non ha avuto il successo che consentiva di chiudere e assegnare i diritti. Ci sarà un secondo bando. Vediamo. Perché no? Non è una cosa da escludere se ci sono ritorni”

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