venerdì 22 settembre 2017

MACCHIAVELLI




Inutile fare i fighi ora.
Lo avevamo preso tutti per un idiota, uno che guidava la guagua.
Anche il vostro umile scriba aveva sottovalutato Nicolas Maduro.
L'impressione che ebbi, a seguito di un'intervista con la televisione cubana, a La Habana, mentre bivaccava al capezzale di Chavez, non fu particolarmente positiva.
Mi sembro' un oscuro burocrate scelto non si sa perche' da Chavez come proprio delfino, a discapito di Cabello che, anche nelle alte sfere cubane almeno stando ai fatti, era tenuto in maggiore considerazione.
I problemi economici del Venezuela nascono da lontano, dagli errori di Chavez stesso a cui Maduro non ha saputo porre rimedio.
In piu' mettiamoci l'aggressione dell'imperio per destabilizzare il paese e abbiamo un quadro esatto della situazione.
Vi confesso che c'e' stato un momento in cui ho temuto che Maduro non ce la facesse, con tutte le conseguenze che questo avrebbe avuto per la nostra Cuba.
A differenza dei profeti di sventura che ammorbano il web nella speranza che Cuba crolli, io metto sempre le esigenze e le necessita' della mia patria adottiva in primo piano.
Se Cuba crolla, anche tutti i miei amici e conoscenti che ho sull'isola se la passerebbero male, solo un idiota spera che la gente a cui vuol bene viva in modo miserando.
C'e' stato un momento, dicevo, in cui ho temuto il peggio ma c'e' da dire che l'esercito, la policia il grande popolo di Chavez non sono mai arretrati di un centimetro.
Gli scontri, contrariamente alle cazzate raccontate dalla nostra prensa, sono stati limitati a un paio di barrios della capitale e a poco o nulla nel resto del paese.
Nella maggior parte dei casi si e' trattato di delinquenti prezzolati o di terroristi infilati nel paese dall'exterior, infatti appena Maduro ha iniziato a fare le cose seriamente si sono dissolti come neve al sole.
L'opposizione, o presunta tale, divisa e attenta al proprio tornaconto personale ha aizzato la piazza alla rivolta.
Eppure le cose non andavano bene, sarebbe bastato arrivare alle prossime elezioni per, probabilmente, prendere il potere ma questi fenomeni hanno voluto, foraggiati dall'exterior da chi vuole mettere le mani sul greggio del paese, forzare la mano approfittando anche della buona fede di tanta gente, e' giusto dirlo, scontenta del governo.
Il Venezuela e' il paese al mondo dove, negli ultimi 20 anni, si sono svolte il maggior numero di libere elezioni, non male per una “sanguinosa dittatura”.
Quando la situazione non e' piu' stata tollerabile 8 milioni di venezuelani hanno dato vita all'assemblea costituente che, di fatto, oggi governa il paese avendo esautorato il parlamento.
Dal punto di vista giuridico la cosa e' molto stiracchiata, in situazioni normali si potrebbe parlare anche di golpe istituzionale ma quando un paese e' in guerra vigono le leggi di guerra.
Infatti, appena insediata la costituente le cose sono drasticamente cambiate in meglio.
Uno a uno i capi delinquenti e terroristi stanno finendo al gabbio.
La tizia che avrebbe dovuto garantire la legalita' nel paese e' fuggita nottetempo in Colombia, in barco, come l'ultimo dei balseros.
La Tintori questa “Giovanna d'Arco 2” dei tempi moderni (la Giovanna d'Arco 1 si trova a Cuba...altro bel fenomeno) moglie di uno dei capi terroristi, e' stata pinzata in fuga mentre in auto aveva 200 milioni di Bolivar, roba da fare impallidire Poggiolini e i suoi milioni imboscati nei puf di casa....
Ha poi cercato di uscire dal paese ma e' stata fermata dalle forze dell'ordine, ora sara' interessante sapere da dove arrivano quei quattrini.
Ora che la legalita' e' stata ristabilita, anche grazie alla pesante presa di posizione pro governo di Russia e Cina,  pero' Maduro deve muovere il culo e cercare di migliorare la situazione economica del paese.
Fare fuori i corrotti, anche della sua cerchia e far tornare il Venezuela ad essere un paese normale.
A volte, per far tornare lo stato di diritto occorre usare le maniere forti.
Non lo dico io, lo diceva Macchiavelli.

P.S. Nei commenti posto una bella intervista col leader degli Inti Illimani che festeggiano i 50 anni di carriera.
Ho perso il conto dei concerti che ho visto durante la mia infanzia e adolescenza in cui ho passato cosi' tanto tempo nelle Feste dell'Unita'.
Credo di aver cenato con loro, dopo i concerti, 4 o 5 volte.
Il pugno chiuso, quando parte quella canzone e' quasi un automatismo che spero di non perdere mai.
La canzone cade a fagiolo su questo post.

23 commenti:

  1. Il loro nome, in dialetto Ayarnara, significa: "Sole di una montagna nelle vicinanze di La Paz, Bolivia". Ambasciatori del patrimonio musicale latinoamericano e della world music, la loro è una delle storie più esemplari della canzone popolare del dopoguerra: quella degli Inti Illimani, scritta in un'epoca che mescolava utopie politiche e sperimentazione esistenziale, impegno civile e decolonizzazione di popoli, classi sociali e gerarchie. Se non fosse che il vecchio ordine era solito reagire in maniera violenta. L'esilio, la lotta contro le dittature, lo spirito di comunità e la fede nella democrazia. Senza dimenticare la bontà della loro proposta musicale, alimentata da strumenti esotici in occidente (tiple, charango, cuatro, sikus, rondador, rombo leguero, guiro, pandereta), partita dall'arrangiamento di temi folkloristici e classici dei connazionali Violeta Parra e Victor Jara per giungere a capolavori come Alturas e alla collaborazione con Peter Gabriel.
    Per gli Inti Illimani ricorrono i cinquant'anni di carriera, mezzo secolo di idee e ideali. La primissima line-up del 1967 comprendeva Pedro Yañez, Jorge Coulón, Max Berrú, Horacio Durán, Oscar Guzmán e Luis Cifuentes e Ciro Retamal. Nel 1973, quando iniziarono i loro quindici anni di asilo politico in Italia dopo il golpe di Pinochet, c'erano anche José Miguel Camus Vargas, Horacio Salinas Alvarez e José Seves Sepulveda. Con la caduta del dittatore cileno i musicisti che resero famoso El pueblo unido, brano composto nel 1970 da Sergio Ortega, musicista del gruppo Quilapayun, tornarono a vivere in patria. Nel 2004 uno dei membri della prima ora, Horacio Duran, ha fondato con uno scisma gli Inti-Illimani Histórico. Ma gli Inti Illimani originali sono tutti in Cile e raramente si imbarcano in tour globali.
    Il leader di questa band aperta è il cantante-chitarrista Jorge Coulón, negli Inti da sempre. Alcuni degli altri componenti si sono aggiunti nei decenni successivi. È un onore, una responsabilità non indifferente essere un Inti Illimani d'oggi. La speranza in un mondo (e in una musica) migliore sopravvive, e ha i like di parecchi millenials. "No, la storia non è affatto finita". Jorge Coulón Larrañaga ha la barba e i capelli candidi, gli occhi sorridenti.
    Come nacque la vostra avventura?
    "Ci incontrammo nal'Università Tecnica di Santiago del Cile, studiavamo ingegneria, era il '67. Ma già da un anno suonavamo in giro. All'inizio eravamo una quindicina di studenti. Restammo in cinque, e il 6 agosto del '67, festa nazionale della Bolivia, debuttammo col nome di Inti Illimani".

    L'11 settembre del 1973. Colpo di stato di Pinochet. Eravate in concerto in Italia.
    "La nostra prima tournée europea. Il 5 settembre arrivammo alla festa dell'Unità di Milano. L'11 eravamo a Roma: avevamo un concerto e stavamo visitando il Vaticano, la basilica di San Pietro quando un compagno della Fgci si fece tutti d'un fiato gli ottocento gradini del Cupolone per comunicarci che in Cile era in corso un golpe militare".

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  2. Nello stadio-lager di Santiago vennero torturate e trucidate migliaia di ragazzi, colpevoli di credere nel progresso e nella democrazia. Tra questi, Victor Jara.
    "Fu uno shock, impossibile da digerire e da capire visto che il Cile aveva alle spalle due secoli di relativa stabilità democratica. Mai era stato chiuso il Parlamento prima di allora. La nostra vita era stata distante da una situazione di quel genere, anche quella dei nostri genitori. La storia ci ha insegnato, molto duramente, che non soltanto queste cose erano possibili ma che da quel momento in poi avremmo ricevuto molte sorprese negative. La nostra prima reazione fu di incredulità. Sapevamo che la situazione era complicata, che Allende aveva convocato un referendum per uscire dalla crisi economica. Ma non avremmo mai immaginato quello che stava per succedere. Il bombardamento aereo del palazzo presidenziale, la morte di Allende, la repressione, le esecuzioni. Una spirale di violenza assurda".

    Se in quei giorni vi foste trovati in Cile, sareste andati incontro al medesimo destino di Victor Jara.
    "Ci abbiamo pensato spesso. La repressione contro gli artisti fu brutale. Oltre a Jara venne ammazzato, per esempio, Jorge Peña Hen, fondatore delle orchestre giovanili sia in Cile che in tutto il continente. Numerosi musicisti, attori, drammaturghi, ballerini vennero imprigionati nei campi di concentramento inaugurati per l'occasione".
    Dal 1973 al 1988 siete rimasti in Italia.
    "Una decisione presa d'accordo con tanti compagni italiani. Fu Giancarlo Pajetta a raccomandarcelo. Ci disse che sarebbe stato un lungo esilio, perché una dittatura di quel genere sarebbe durata per un numero imprecisabile di anni. Terminammo il tour, andammo a suonare in Francia e in Olanda ma a ottobre non tornammo in Cile come programmato: ci stabilimmo in Italia. Avevo 25 anni e nessuna cognizione di cosa volesse dire la parola esilio. È difficile spiegare cosa hanno incarnato questi quindici anni per noi. Ci accoglieste benissimo, si creò un movimento di solidarietà trasversale agli stessi partiti politici - col Pci in testa. La società italiana nel suo complesso ci ha inondato di affetto. In Italia sono diventato adulto".

    Nell'88 la dittatura in Cile è formalmente finita. Siete tornati.
    "La dittatura, nell'88, non era completamente sparita. Fu un exit negoziato perché la situazione interna era insostenibile, le tensioni erano alle stelle e gli americani non potevano più sponsorizzare il regime. Pinochet chiamò un plebiscito, e lo perse. Ma il 40 per cento votò per lui, era con lui, e ancora oggi un terzo della nostra nazione è pinochetista, reazionario, cripto-fascista. Abbiamo ereditato il suo modello economico neoliberista selvaggio, edificato sulle ceneri di un sistema sindacale spappolato con la violenza. Lui restò il capo delle forze armate, e cominciò una transizione infinita. Però cominciammo ad avere cura di questo fiore delicato che è la democrazia, affinché diventasse una pianta, e poi un albero, una base robusta su cui ricostruire le nostre vite".

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  3. Che cosa avete provato quando Pinochet è morto, il 10 dicembre del 2006, a 91 anni?
    "Da un lato è un bene che questi personaggi scompaiano fisicamente, anche se aleggeranno per sempre sulle nostre vite e sulla nostra storia; dall'altro, resta la frustrazione per non essere stati capaci di giudicarlo e condannarlo in vita. Non ha mai scontato un solo giorno di galera, a parte il tentativo fatto nel 1998 dal giudice spagnolo Garzón. Poi, certo, è morto nel discredito generale, la sua tomba è invisibile e le sue ceneri sono svanite: forse le nasconde la moglie sotto il materasso".

    Che uomo politico era Allende?
    "Politici come Allende, o Sandro Pertini che messo nelle condizioni del primo si sarebbe sacrificato allo stesso modo, per coerenza con se stessi e coi propri ideali, non ce ne sono più. La politica è decaduta, è diventata un semplice esercizio del potere, non rappresenta più una specie di apostolato democratico, di servizio a un'idea. Non so se ci siano ancora da qualche parte nel mondo figure della levatura di Allende, magari annidate nelle nuove generazioni. Io spero di sì, per il futuro dell'umanità".

    Vi manca l'Italia?
    "Moltissimo. E credo che anche a voi manchi quell'Italia che noi rimpiangiamo".

    Come definireste la vostra cifra musicale, world music?
    "Abbiamo sempre cercato di plasmare un linguaggio musicale che fosse universale, però al contempo fortemente radicato nel nostro patrimonio territoriale. L'America Latina è ancora il continente nuovo. Siamo tuttora una nebulosa, una galassia in formazione".

    "La musica andina, che noia mortale, sono più di tre anni che si ripete sempre uguale" cantava Lucio Dalla. Gliel'avete mai perdonata?
    "Be' (ride) Lucio si è fatto perdonare ampiamente, è stato a mangiare a casa mia. Era un grande".

    Negli anni Settanta i vostri dischi andavano a ruba, eravate ai primi posti delle hit parade. Quasi come i Pink Floyd. Il successo vi colse alla sprovvista?
    "Sì, e spiazzò gli stessi italiani: quella canzone di Lucio ha un senso anche per questo. In senso lato si allinearono diverse costellazioni. La musica del sud del continente americano suonava completamente inedita nel Belpaese ed esercitò un fascino strettamente sonoro, oltre che politico. Fece innamorare. No, non ci aspettavamo tutto quel successo, ma noi eravamo ossessionati dalle notizie terribili che arrivavano dal Cile. Fu questo il nostro antidoto. Abbiamo vissuto la nostra popolarità in funzione della causa anti-dittatura, lottando per il ritorno della democrazia nella nostra terra martoriata".

    Non era una vera Festa dell'Unità senza un concerto degli Inti Illimani.
    "Un fenomeno imprescindibile di crescita culturale e politica. Non saprei spiegarmi l'Italia di quegli anni, gravidi di speranze nonostante il terrorismo, senza le feste dell'Unità".

    Secondo lei, che cosa sarebbe accaduto se l'allora Partito Comunista Italiano avesse ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni?
    "Penso che non sarebbe successo nulla di grave, nessun colpo di Stato. Anche perché molte volte il prezzo da pagare per ottenere e gestire la maggioranza dei voti è di scendere a compromessi, allearsi con gli altri partiti, avvicinarsi al senso comune, accantonare gli spiriti rivoluzionari".

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  4. Che effetto vi fa vedere i ventenni affollare i vostri concerti?
    "La presenza delle terze, quarte generazioni è un po' un premio alla nostra traiettoria. Se esiste una cosa che gratifica fortemente, è il riuscire a trascendere la tua dimensione. Io spero, un po' vanitosamente, che tutto questo abbia a che fare con quella certa decenza e coerenza etica che abbiamo avuto nella nostra carriera. E spero che conti parecchio l'aspetto musicale. D'altro canto, abbiamo strenuamente combattuto il rischio di diventare un museo di noi stessi, aggiornando di continuo sound e lpoetica. Temi e ritmi da far coesistere con i precedenti".

    C'è ancora spazio per la musica rivoluzionaria?
    "Le canzoni, da sole, non fanno le rivoluzioni. Rivoluzionari sono stati Beethoven, Stravinsky, Luciano Berio, Bob Dylan. Assimilare la canzone popolare al concetto di musica rivoluzionaria, impegnata civilmente e politicamente, è riduttivo. L'inno della Comune di Parigi era una canzone romantica, si chiamava Il tempo delle ciliegie. Bandiera rossa e Bella ciao sono importantissime, ma lo stesso può dirsi per le canzoni d'amore e sociali. La grande musica popolare può parlare di qualsiasi cosa: l'importante è che siano delle buone, oneste canzoni e arrivino il più possibile al cuore. Il resto è mistero".

    Quali musicisti italiani, vecchi e nuovi, ascolta con più piacere?
    "Domenico Modugno, un certo De André, il predetto Dalla, De Gregori che è legato alla nostra storia e permanenza in Italia, De Simone della Nuova Compagnia di Canto Popolare".

    Cosa pensa dei social network?
    "Umberto Eco, che stimavo enormemente, espresse quel famoso giudizio negativo in materia. Credo che producano una sensazione di falsa libertà, i social. Ricordo quando uscirono le radio libere: i compagni erano entusiasti, parlavano di rivoluzione nell'informazione e io lì a spegnere gli entusiasmi perché sostenevo 'state attenti, saranno libere per un po', ma poi diventeranno private. Ed è andata così. Questi nuovi strumenti di comunicazione stravolgeranno il futuro, hanno appena iniziato a cambiarci la vita. Ma non possiamo prevedere cosa accadrà di preciso. Se assumeranno una connotazione autoritaria o torneranno alle origini. Di sicuro, ci fossero stati Facebook e Twitter, non si sarebbe manifestato un Augusto Pinochet per come lo abbiamo conosciuto. Ma nemmeno Giulio Cesare sarebbe finito in Egitto".
    Il mondo di oggi è più giusto o più ingiusto rispetto a cinquanta o quarant'anni fa?
    "È molto diverso. La miseria etica, umana, culturale ha preso il posto di quella materiale. In Cile non esistono quasi più problemi di fame, ma di obesità. Però non credo sia diventato un Paese migliore. Non so nemmeno se sia un Paese più felice".

    C'è ancora spazio per un "miglioramento delle cose esistenti"?
    "Un grande musicologo italiano mio amico, Luigi Pestalozza, amava ripetere: 'il futuro non è indipendente da quello che noi faremo per costruirlo'. Si può così ancora aspirare a un sol dell'avvenire. Ma dipende da noi, se saremo capaci o meno di farlo sorgere".

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  5. Il capitalismo ha sconfitto il socialismo?
    "Si parlava di fine della storia perché era caduto il muro di Berlino. Ma nel muro d'acqua del Mediterraneo è poi morta molta più gente che per il Patto di Varsavia. Persistono muri tra Israele e Palestina, una Palestina che non è mai sbocciata. Abbiamo un nuovo muro di cui nessuno parla, tra gli Stati Uniti e il Messico. No, la storia non è morta e quando si afferma che il capitalismo ha sconfitto il socialismo o che il laicismo ha sbaragliato la religione... Non è vero. Perché le cose girano. A me piacerebbe tanto poter dire che la scienza ha vinto l'ignoranza, ma poi basta accendere la tv per venire sommersi da un dilagare di programmi animati da gente che indovina il futuro, legge i tarocchi. La ragione è lontanissima dall'aver preso il sopravvento. Io non so se il capitalismo abbia sconfitto il socialismo o se annienterà se stesso e si dovrà trovare qualcos'altro. Uno come Bernie Sanders, negli States, si dichiara fieramente socialista".

    Ogni volta che intonate El pueblo unido continua a levarsi al cielo un vortice di pugni chiusi.
    "Guarda, io vorrei affrancare non il gesto rabbioso del pugno chiuso, ma quello originale, che significa unità. C'è un biologo cileno grande amico del Dalai Lama che ha spiegato che non sono le specie più aggressive quelle che sopravvivono nel tempo, ma le più solidali. Il pugno chiuso implica unità, collaborazione, concetti che gli umani hanno capito nel loro sviluppo. Ci siamo imposti sugli animali perché siamo stati capaci di cacciare in società, collaborando gli uni con gli altri; altrimenti saremmo stati divorati. Forse proprio questa nostalgia della collaborazione primitiva è il motore che ci fa alzare geneticamente il pugno chiuso quando è sottesa un'epica della comunità, della solidarietà. E forse El pueblo unido risveglia questo bisogno profondo dell'altro. Perché noi siamo anche gli altri, abbiamo bisogno di loro e in fondo quello che tutti noi cerchiamo è che gli altri abbiano bisogno di noi".
    Non era una vera Festa dell'Unità senza un concerto degli Inti Illimani.
    "Un fenomeno imprescindibile di crescita culturale e politica. Non saprei spiegarmi l'Italia di quegli anni, gravidi di speranze nonostante il terrorismo, senza le feste dell'Unità".

    Secondo lei, che cosa sarebbe accaduto se l'allora Partito Comunista Italiano avesse ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni?
    "Penso che non sarebbe successo nulla di grave, nessun colpo di Stato. Anche perché molte volte il prezzo da pagare per ottenere e gestire la maggioranza dei voti è di scendere a compromessi, allearsi con gli altri partiti, avvicinarsi al senso comune, accantonare gli spiriti rivoluzionari".

    Che effetto vi fa vedere i ventenni affollare i vostri concerti?
    "La presenza delle terze, quarte generazioni è un po' un premio alla nostra traiettoria. Se esiste una cosa che gratifica fortemente, è il riuscire a trascendere la tua dimensione. Io spero, un po' vanitosamente, che tutto questo abbia a che fare con quella certa decenza e coerenza etica che abbiamo avuto nella nostra carriera. E spero che conti parecchio l'aspetto musicale. D'altro canto, abbiamo strenuamente combattuto il rischio di diventare un museo di noi stessi, aggiornando di continuo sound e lpoetica. Temi e ritmi da far coesistere con i precedenti".

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  6. C'è ancora spazio per la musica rivoluzionaria?
    "Le canzoni, da sole, non fanno le rivoluzioni. Rivoluzionari sono stati Beethoven, Stravinsky, Luciano Berio, Bob Dylan. Assimilare la canzone popolare al concetto di musica rivoluzionaria, impegnata civilmente e politicamente, è riduttivo. L'inno della Comune di Parigi era una canzone romantica, si chiamava Il tempo delle ciliegie. Bandiera rossa e Bella ciao sono importantissime, ma lo stesso può dirsi per le canzoni d'amore e sociali. La grande musica popolare può parlare di qualsiasi cosa: l'importante è che siano delle buone, oneste canzoni e arrivino il più possibile al cuore. Il resto è mistero".

    Quali musicisti italiani, vecchi e nuovi, ascolta con più piacere?
    "Domenico Modugno, un certo De André, il predetto Dalla, De Gregori che è legato alla nostra storia e permanenza in Italia, De Simone della Nuova Compagnia di Canto Popolare".

    Cosa pensa dei social network?
    "Umberto Eco, che stimavo enormemente, espresse quel famoso giudizio negativo in materia. Credo che producano una sensazione di falsa libertà, i social. Ricordo quando uscirono le radio libere: i compagni erano entusiasti, parlavano di rivoluzione nell'informazione e io lì a spegnere gli entusiasmi perché sostenevo 'state attenti, saranno libere per un po', ma poi diventeranno private. Ed è andata così. Questi nuovi strumenti di comunicazione stravolgeranno il futuro, hanno appena iniziato a cambiarci la vita. Ma non possiamo prevedere cosa accadrà di preciso. Se assumeranno una connotazione autoritaria o torneranno alle origini. Di sicuro, ci fossero stati Facebook e Twitter, non si sarebbe manifestato un Augusto Pinochet per come lo abbiamo conosciuto. Ma nemmeno Giulio Cesare sarebbe finito in Egitto".
    C'è ancora spazio per un "miglioramento delle cose esistenti"?
    "Un grande musicologo italiano mio amico, Luigi Pestalozza, amava ripetere: 'il futuro non è indipendente da quello che noi faremo per costruirlo'. Si può così ancora aspirare a un sol dell'avvenire. Ma dipende da noi, se saremo capaci o meno di farlo sorgere".

    Il capitalismo ha sconfitto il socialismo?
    "Si parlava di fine della storia perché era caduto il muro di Berlino. Ma nel muro d'acqua del Mediterraneo è poi morta molta più gente che per il Patto di Varsavia. Persistono muri tra Israele e Palestina, una Palestina che non è mai sbocciata. Abbiamo un nuovo muro di cui nessuno parla, tra gli Stati Uniti e il Messico. No, la storia non è morta e quando si afferma che il capitalismo ha sconfitto il socialismo o che il laicismo ha sbaragliato la religione... Non è vero. Perché le cose girano. A me piacerebbe tanto poter dire che la scienza ha vinto l'ignoranza, ma poi basta accendere la tv per venire sommersi da un dilagare di programmi animati da gente che indovina il futuro, legge i tarocchi. La ragione è lontanissima dall'aver preso il sopravvento. Io non so se il capitalismo abbia sconfitto il socialismo o se annienterà se stesso e si dovrà trovare qualcos'altro. Uno come Bernie Sanders, negli States, si dichiara fieramente socialista".

    Ogni volta che intonate El pueblo unido continua a levarsi al cielo un vortice di pugni chiusi.
    "Guarda, io vorrei affrancare non il gesto rabbioso del pugno chiuso, ma quello originale, che significa unità. Il pugno chiuso implica unità, collaborazione, concetti che gli umani hanno capito nel loro sviluppo. Ci siamo imposti sugli animali perché siamo stati capaci di cacciare in società, collaborando gli uni con gli altri; altrimenti saremmo stati divorati. Forse proprio questa nostalgia della collaborazione primitiva è il motore che ci fa alzare geneticamente il pugno chiuso quando è sottesa un'epica della comunità, della solidarietà. E forse El pueblo unido risveglia questo bisogno profondo dell'altro. Perché noi siamo anche gli altri, abbiamo bisogno di loro e in fondo quello che tutti noi cerchiamo è che gli altri abbiano bisogno di noi".

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  7. Non rinnega, perché è fiero. Non ha vergogna, perché non c’è paura. Parlare di forza del gruppo, spogliatoio coeso non è il suo rifugio. Per star comodamente al mondo, anche in quello del calcio, basta dire ovvie banalità. Si fa così, è il protocollo da conferenza stampa. Racconta niente, ma basta a sfamare tutti. Sinisa Mihajlovic no. Non la prende mai alla larga, non ci gira attorno. Va dentro il problema, lo spacca, lo analizza. Poi lo ripone daccapo, con un’altra domanda e una nuova ancora, finché sei tu a cercare risposte e a dover ricomporre certezze sgretolate. Mihajlovic è una persona forte, cresciuto sotto il generale Tito, svezzato da due guerre, indurito dall’orgoglio della sua Serbia. Gli storici sogni di grandezza del Paese sono scomparsi, resta a mala pena la voglia di farcela a sopravvivere. L’allenatore del Toro è un «privilegiato», almeno così dice chi guarda da fuori. E in fondo è vero. Aveva notorietà e miliardi in tasca quando sulla sua casa piovevano bombe. Aveva tutto, ha ancora l’umiltà di non dimenticare da dove viene e chi è.

    Il 24 marzo 1999 la Nato cominciò i bombardamenti sulla Federazione Jugoslava. Quando l’hai saputo? Dov’eri?
    «In ritiro con la nazionale slava. La notte prima ci avvisarono che la guerra sarebbe potuta cominciare. Eravamo al confine con l’Ungheria, la Federazione ci trasferì in fretta a Budapest. La mattina dopo sulla Cnn c’erano già i caccia della Nato che sventravano la Serbia».
    Qual è stata la tua prima reazione?
    «Ho contattato i miei genitori, stavano a Novi Sad. Li ho fatti trasferire a Budapest, ma papà non voleva. Da lì siamo partiti per Roma (ai tempi giocava nella Lazio, ndr), ma dopo due giorni mio padre Bogdan ha voluto tornare in Serbia. Mi disse: "Sono già scappato una volta da Vukovar a Belgrado durante la guerra civile. Non lo farò ancora, non potrei più guadare i vicini di casa quando i bombardamenti finiranno". Prese mia madre Viktoria e se ne andarono. Ero preocuppato, ma fiero di lui».
    Dieci anni dopo come giudichi quella guerra?
    «Devastante per la mia patria e il mio popolo. A Novi Sad c’erano due ponti sul Danubio: li fecero saltare subito. Ci misero in ginocchio dal primo giorno. Prima della guerra per andare dai miei genitori dovevo fare 1,4 km, ma senza ponti eravamo costretti a un giro di 80 chilometri. Per mesi la gente ha sofferto ingiustamente. Bombe su ospedali, scuole, civili: tutto spazzato via, tanto non faceva differenza per gli americani. Sul Danubio giravano solo delle zattere vecchie. Come la giudico? Ho ricordi terribili, incancellabili, inaccettabili».
    Ma la reazione della Nato fu dettata dalla follia di Milosevic. La storia dice che fu lui a provocare quella guerra.
    «Siamo un popolo orgoglioso. Certo tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno. So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».
    L’hai conosciuto?
    «Ci ho parlato tre-quattro volte. Aveva una mia maglietta della Stella Rossa di Belgrado e mi diceva: Sinisa se tutti i serbi fossero come te ci sarebbero meno problemi in questa terra».
    Il tuo rapporto con gli americani?
    «Non li sopporto. In Jugoslavia hanno lasciato solo morte e distruzione. Hanno bombardato il mio Paese, ci hanno ridotti a nulla. Dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano aiutato a ricostruire l’Europa, a noi invece non è arrivato niente: prima hanno devastato e poi ci hanno abbandonati. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche, tutto per le bombe e l’uranio che ci hanno buttato addosso. Che devo pensare di loro?».

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  8. Rifaresti tutto ciò che hai fatto in quegli anni, compreso il necrologio per Arkan?
    «Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri».
    Ma le atrocità commesse?
    «Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?»
    Sì, ma i croati...
    «Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: "C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado". Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».
    Hai nostalgia della Jugoslavia?
    «Certo, di quella di Tito. Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando».
    Sei un nazionalista?
    «Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono».
    È giusta l’indipendenza del Kosovo?
    «Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente».
    Dieci anni dopo la guerra cos’è la Serbia?
    «Un paese scaraventato indietro di 50-100 anni. A Belgrado il centro è stato ricostruito, ma fuori c’è devastazione. E anche dentro le persone. Oggi educare un bambino è un’impresa impossibile».
    Perché?
    «Sotto Tito t’insegnavano a studiare, per migliorarti, magari per diventare un medico, un dottore e guadagnare bene per vivere bene, com’era giusto. Oggi lo sapete quanto prende un primario in Serbia? 300 euro al mese e non arriva a sfamare i suoi figli. I bimbi vedono che soldi, donne, benessere li hanno solo i mafiosi: è chiaro che il punto di riferimento diventa quello. C’è emergenza educativa in Serbia. L’educazione dobbiamo far rinascere».
    Sei ambasciatore Unicef da dieci anni e hai aperto una casa di accoglienza per gli orfani a Novi Sad.
    «Sì è vero, ce ne sono 150, ma non ne voglio parlare. So io ciò che faccio per il mio Paese. Una cosa non ho mai fatto, come invece alcuni calciatori croati: mandare soldi per comprare armi».
    L’immagine peggiore che hai della guerra?
    «Giocavo nella Lazio. Apro Il Messaggero e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere».

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  9. Il petrolio fa gola a molti. Giuseppe

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  10. Onore a Sinisa,non sapevo di questo suo aspetto.Da oggi ho un idolo in piu.
    Negli anni scorsi ho conosciuto un militante cileno scappato dalla dittatura stabilitosi dalle mie parti.Dico solo che e'morto a causa delle conseguenze delle torture subite.
    Per quanto riguarda il Venezuela chi vuole informazioni libere da manipolazioni consiglio di leggere gli articoli di Geraldina Colotti.Per chi non la conoscesse ha un passato "doc".

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  11. Quando cantano gli Inti Illimani il pugno alzato e' d'ordinanza come lo sono le 3 dita al cielo quando parla Sinisa.
    Grazie per la dritta della Colotti.

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    1. Ciao,
      mi passeresti per cortesia il link dell'articolo su sinisa?

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  12. http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/rossoblu/2009/23-marzo-2009/mihajlovic-vi-racconto-mia-serbia--prima-bombardata-poi-abbandonata-1501110975607.shtml

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  13. SQUADRA DI MUGHINI E GILETTI(4-2-3-1): Buffon; Lichtsteiner, Benatia, Chiellini, Alex Sandro; Matuidi, Pjanic; Cuadrado, Dybala, Douglas Costa; Mandzukic. A disposizione: Szczesny, Pinsoglio, Barzagli, Rugani, Asamoah, Bentancur, Sturaro, Bernardeschi, Higuain. Allenatore: Allegri

    TORINO: (4-2-3-1): Sirigu, De Silvestri, N’Kolou, Lyanco, Ansaldi, Rincon, Baselli, Iago Falque, Ljajic, Niang, Belotti. Allenatore: Sinisa Mihajlovic

    Speriamo in una bella partita possibilmente 11 contro 11...poi vada come vada.

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  14. hola! gli avvenimenti in corso: venezuela che resiste, cina che con il doppio gioco manovra la corea del nord ( non dimenticando il ruolo della russia) porteranno a dei cambiamenti geopolitici molto rilevanti. Gli usa non possono più mantenere il loro immenso apparato bellico e gli stati alleati. La novità è la penetrazione cinese in venezuela, il territorio con il più alto potenziale di idrocarburi, diamanti, oro etc. Se perdono il dominio sul "giardino di casa" non lo recuperano più. In questo contesto anche Cuba con la sua posizione strategica farà gola al gigante asiatico magari con il ritorno de la madre rusia......a ver que pasa. chao Enrico

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    1. Per non parlare delle manovre militari congiunte russe e bielorusse che stanno facendo strizzare i paesi baltici.

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  15. La solita pagliacciata quando giochiamo contro questa gente.
    24 esimo del primo tempo...espulso Baselli.
    Possibile che Cairo non conti mai un cazzo?
    Chiudo la trasmissione.

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  16. Chiellini prima di essere ammonito deve fare 5 falli....Baselli...ammonito subito al primo,normalissimo fallo...non si smentiscono mai...!blanco79

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    1. E' la sola cosa a cui possiamo attaccarci perche dopo un 4-0 c'e' poco da dire.
      Adoro Sinisa ma tatticamente non e' esattamente uno stratega.
      Due soli a centrocampo va bene con le squadre della nostra forza o piu' deboli.
      Con quelle piu' quotate e' un suicidio.
      dobbiamo arrivare sesti e so che il serbo ci portera' Dn europa ma ogni tanto occorre anche usare la testa.
      Se fai a botte con uno piu' grosso o sei piu' furbo o le prendi.
      Ora voltiamo pagina e sotto col Verona.

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  17. be io non sono juventino pero Baselli deve aver scollegato la testa per fare quella entrata da ammonito.....è fuori?

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  18. A forza di sentire Sinisa che gli urlava di tirare fuori le palle...ha esagerato...

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