Marco Archetti
E così un giorno mi licenziai e lasciai l’ufficio
della Telecom con la sua oscurità familiare per tuffarmi nella
solarità promettente di un mondo nuovo: quello dei venditori di
panini allo stadio. Era la selvatica estate padana del 1998, nasceva
la Banca centrale europea, la mia amica Annalisa partiva per
l’Inghilterra senza tornare, mio padre e mia madre procedevano con
la separazione numero quattordici e io facevo il Grande passo
numero uno: farla finita coi telefoni. Consegnai la lettera di
dimissioni il primo aprile.
Andò così: dopo il diploma, straniero a me stesso e impregnato di ribellismo post adolescenziale, avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria, a un centinaio di weekend da cameriere e ai turni in un’impresa di pulizie. Quando non lavoravo, leggevo. Così ero venuto in contatto col poeta cubano Omar Pérez, fatalmente, proprio attraverso un libro. Omar poi l’avevo incontrato davvero, però in Italia, Avevamo parlato a lungo, la mattina seguente, io e Omar. Mi disse che si trovava all’estero da un po’, ma che la sua storia era un po’ complicata. Prima che me ne andassi mi pregò di portare dei medicinali a sua madre e mi affidò una sporta che conteneva cinque o sei scatole di aspirine, svariati antipiretici e dieci confezioni di Aulin. Il mio primo contatto con Cuba fu questo: bustine, pastiglie, blister, l’immaginario farmaceutico del bisogno. Il secondo fu l’aeroporto José Marti, in cui atterrai un mese dopo. Mentre l’aereo si abbassava guardavo attraverso l’oblò e vedevo, oltre al mare dell’Avana – carcassa liquida, bestia lucente –, la parata di tutte le questioni che avevo troncato unilateralmente, ossia lavoro, comunicazioni familiari e rapporto con la fidanzata, mollata su due piedi perché si era rifiutata di seguirmi. Ma in poche ore dimenticai tutto e vinse l’eccitazione di essere lì, a ottomila chilometri da casa e in un altro mondo: il mondo dei poster, dell’immaginario di generazioni, dei ribelli grandemente fotogenici.
Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne una volta, in cui ho corrotto due impiegatos, due sentinelle della revolución ritte a prua della Gloriosa Bagnarola Statale, i quali, per accorciare la pratica e allungarmi il visto, dimostrarono – e senza vistosi patemi – di gradire più gli euro che l’impotente moneta nazionale. La vicenda aveva fatto sorridere maliziosamente Victor, medico psichiatra che mi affittava una stanza di casa, solidale, fratello e amico di quei giorni avaneri, libero prosatore dei testi di Silvio Rodrìguez, gran decostruttore di miti e flâneur – tante le nottate a ridere a morte e a bere e camminare su e giù. Strabiliato, mi chiedeva come diavolo potessi vivere lì con tanta apparente disinvoltura, io che avevo la fortuna di venire dal mondo del sapone dalle mille marche, dall’Italia, anzi, dall’Europa, luogo civile. Già, come potevo? Cominciai a chiedermelo anch’io. E così, grazie a Victor e a un implacabile bisogno di sguardo leale sulle cose – vizio che mi è rimasto da allora – vidi pian piano sbiadirsi la Cuba che, suggestionato da mitizzazioni mediocri, avevo amato in Italia, e prender corpo la Cuba con cui avrei dovuto fare i conti a Cuba, l’Avana per l’Infante defunto che ero, perfettamente riassunta negli occhi sfatti dei cubani: mentre mi pigiavo con loro in un taxi collettivo, assolato e graveolente, mi sembrava perfino di udirli pensare “ecco l’ennesimo straniero che vuole un’esperienza autentica noleggiando dieci minuti del nostro malessere quotidiano”. Cuba mi ha cambiato la vita e soprattutto la testa. Cuba vissuta ogni giorno per cinquecentocinquanta giorni. Cuba e alcune persone. Ero arrivato per tuffarmi nel paradiso in terra, e fu subito evidente – dalle facce fameliche, dalla miseria culturale, dalla sistematica riduzione a non-persona di ogni persona – che a Cuba non si poteva vivere ma solamente strisciare, vegetare e lentamente svanire: come mi sarei sentito, da quel momento in poi?
Nel frattempo, ingordo, acceso, non dormivo mai e imparavo a memoria quella splendida Avana delirante – labirinto costruito per l’ombra, maestosa Saint Honoré andata a male, imponente bordello che aveva inventato il turismo di massa caraibico – perdendomi in quel dedalo giallo, in quell’arabesco fatiscente, camminando pensieri e odorando sentori acquitrinali e infernosi sprigionamenti di marcescenza. Ma come mi sentivo mentre percorrevo quelle strade abbacinanti e deturpate dalle parole d’ordine di regime? Come mi sentivo mentre discendevo per la calle 23 in direzione oceano, tra alveari coloniali con donne affacciate alle grate delle finestre come canarini in gabbia, investito da folate di quinzeañeras che scherzavano tra di loro, bianche, nere e mulatte, in posa per le foto con ombrellini decorati da martin gale di raso scadente, regine di rayon sullo sfondo di saracinesche arrugginite, sidecar sovietici e vessilli di mutande stese? Come mi sentivo quando raccontavo di Ariadna, la scrittrice di cui mi ero innamorato, alla mia amica Annalisa che viveva in quella lontanissima e implausibile Inghilterra, usufruendo dell’unica connessione internet disponibile cioè quella del Nacional, torreggiante hotel tutto mogano e passamanerie retrò (connessione ovviamente di merda, che ci metteva un’ora per farmi leggere due mail e un attimo a strapparmi sensazionali sacramenti, mentre l’addetta mi fissava)? Come mi sono sentito quando passeggiavo con Victor lungo il Malecòn, la Polizia fermava entrambi ma poi si scusava con me e chiedeva i documenti solo a lui, e quando, rientrati a casa, lui si sfogava con sua madre e i cognati e il nipote insieme ai quali viveva in cinquanta afosi metri quadrati, dando in escandescenze al punto che tutti si precipitavano ad abbassar tapparelle in un coro di “cretino, prima o poi ci farei passare dei guai”?
Come mi sono sentito quando, in riunione clandestina con lo sparuto manipolo di amici artisti, lunatici da marciapiede, scrittori senza romanzo espulsi dal consesso comunista ma miei fratelli nella grande patria immateriale della letteratura e disillusi sostenitori dell’unico progetto sostenibile – il Proyecto Varela – cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, e li amavo mentre vaneggiavano dei grandi romanzi epocali che avrebbero scritto quando Cuba se li sarebbe meritati, cioè quando sarebbe stata finalmente libre? Come mi sono sentito quando constatavo le vite grame dei miei amici e delle loro famiglie, il terrore continuo, la violenza e la miseria nera che affliggevano le loro vite di esiliati in patria, eppure, chiudendo gli occhi, contraddittoriamente e vergognosamente, mi rendevo conto che in quei mesi la voglia di vivere mi stava saltando tutta addosso, con foga famelica, come un demone acrobata?
E come mi sentivo quando, pagina dopo pagina, quel libro di strade e amicizie e conversazioni infinite, si rivelava sempre più doloroso? Un libro che più andava avanti, più tornava indietro, e le pagine che mi erano sembrate divertenti lo erano sempre meno, finché a un certo punto tornavo in Italia, a Brescia, a capofitto nella sporta di Omar e nel suo immaginario farmaceutico, perché una notte, Ulyses, un amico, scrittore senza speranza, uno del nostro circolo della maionese, aveva ingoiato due blister interi di Zerinol che gli avevo portato proprio io, me li aveva chiesti, e li aveva buttati giù con due caraffate di rum? L’avevano ricoverato d’urgenza e non ci avevano permesso di andare a trovarlo. Poi sì. Sennonché, arrivati lì, ci avevano detto che si erano sbagliati, niente da fare.
La storia di Omar, invece, me l’ha raccontata sua madre Lilia Rosa, un pomeriggio: le intemperanze giovanili di suo figlio, il campo di rieducazione a Pinar del Rio, Fidel Castro in persona che si era scomodato ed era andato a trovarla per chiederle di stare attenta, il ragazzo doveva mettere la testa a posto, insomma – le aveva detto – con tutto quel che Omar rappresenta… “Perché, cosa rappresenta?” le avevo chiesto io. E Lilia Rosa cominciò a raccontare davvero solo in quel momento. Finì a sera, quando concluse: “Che Omar sia figlio di Che Guevara lo sanno in pochi e lo sospettano in tanti. Tu, adesso, lo sai”.
Quanto agli altri amici, la polizia ne ha arrestati molti, perché condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato. E anche se ci ho provato – tornato in Italia, non ho praticamente fatto altro – non sono mai riuscito ad aiutarli. Ulyses l’ho sentito qualche anno dopo, nel 2008. Io ero ospite al Festival Letteratura di La Paz, lui era fuggito da Cuba e viveva a Santo Domingo. Era davvero lui? Attraverso il telefono la sua voce non era quella che ricordavo. “Non scrivo più, me ne hanno tolto la voglia. Faccio la guardia in un parcheggio. Adesso però ti devo salutare”.
Andò così: dopo il diploma, straniero a me stesso e impregnato di ribellismo post adolescenziale, avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria, a un centinaio di weekend da cameriere e ai turni in un’impresa di pulizie. Quando non lavoravo, leggevo. Così ero venuto in contatto col poeta cubano Omar Pérez, fatalmente, proprio attraverso un libro. Omar poi l’avevo incontrato davvero, però in Italia, Avevamo parlato a lungo, la mattina seguente, io e Omar. Mi disse che si trovava all’estero da un po’, ma che la sua storia era un po’ complicata. Prima che me ne andassi mi pregò di portare dei medicinali a sua madre e mi affidò una sporta che conteneva cinque o sei scatole di aspirine, svariati antipiretici e dieci confezioni di Aulin. Il mio primo contatto con Cuba fu questo: bustine, pastiglie, blister, l’immaginario farmaceutico del bisogno. Il secondo fu l’aeroporto José Marti, in cui atterrai un mese dopo. Mentre l’aereo si abbassava guardavo attraverso l’oblò e vedevo, oltre al mare dell’Avana – carcassa liquida, bestia lucente –, la parata di tutte le questioni che avevo troncato unilateralmente, ossia lavoro, comunicazioni familiari e rapporto con la fidanzata, mollata su due piedi perché si era rifiutata di seguirmi. Ma in poche ore dimenticai tutto e vinse l’eccitazione di essere lì, a ottomila chilometri da casa e in un altro mondo: il mondo dei poster, dell’immaginario di generazioni, dei ribelli grandemente fotogenici.
Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne una volta, in cui ho corrotto due impiegatos, due sentinelle della revolución ritte a prua della Gloriosa Bagnarola Statale, i quali, per accorciare la pratica e allungarmi il visto, dimostrarono – e senza vistosi patemi – di gradire più gli euro che l’impotente moneta nazionale. La vicenda aveva fatto sorridere maliziosamente Victor, medico psichiatra che mi affittava una stanza di casa, solidale, fratello e amico di quei giorni avaneri, libero prosatore dei testi di Silvio Rodrìguez, gran decostruttore di miti e flâneur – tante le nottate a ridere a morte e a bere e camminare su e giù. Strabiliato, mi chiedeva come diavolo potessi vivere lì con tanta apparente disinvoltura, io che avevo la fortuna di venire dal mondo del sapone dalle mille marche, dall’Italia, anzi, dall’Europa, luogo civile. Già, come potevo? Cominciai a chiedermelo anch’io. E così, grazie a Victor e a un implacabile bisogno di sguardo leale sulle cose – vizio che mi è rimasto da allora – vidi pian piano sbiadirsi la Cuba che, suggestionato da mitizzazioni mediocri, avevo amato in Italia, e prender corpo la Cuba con cui avrei dovuto fare i conti a Cuba, l’Avana per l’Infante defunto che ero, perfettamente riassunta negli occhi sfatti dei cubani: mentre mi pigiavo con loro in un taxi collettivo, assolato e graveolente, mi sembrava perfino di udirli pensare “ecco l’ennesimo straniero che vuole un’esperienza autentica noleggiando dieci minuti del nostro malessere quotidiano”. Cuba mi ha cambiato la vita e soprattutto la testa. Cuba vissuta ogni giorno per cinquecentocinquanta giorni. Cuba e alcune persone. Ero arrivato per tuffarmi nel paradiso in terra, e fu subito evidente – dalle facce fameliche, dalla miseria culturale, dalla sistematica riduzione a non-persona di ogni persona – che a Cuba non si poteva vivere ma solamente strisciare, vegetare e lentamente svanire: come mi sarei sentito, da quel momento in poi?
Nel frattempo, ingordo, acceso, non dormivo mai e imparavo a memoria quella splendida Avana delirante – labirinto costruito per l’ombra, maestosa Saint Honoré andata a male, imponente bordello che aveva inventato il turismo di massa caraibico – perdendomi in quel dedalo giallo, in quell’arabesco fatiscente, camminando pensieri e odorando sentori acquitrinali e infernosi sprigionamenti di marcescenza. Ma come mi sentivo mentre percorrevo quelle strade abbacinanti e deturpate dalle parole d’ordine di regime? Come mi sentivo mentre discendevo per la calle 23 in direzione oceano, tra alveari coloniali con donne affacciate alle grate delle finestre come canarini in gabbia, investito da folate di quinzeañeras che scherzavano tra di loro, bianche, nere e mulatte, in posa per le foto con ombrellini decorati da martin gale di raso scadente, regine di rayon sullo sfondo di saracinesche arrugginite, sidecar sovietici e vessilli di mutande stese? Come mi sentivo quando raccontavo di Ariadna, la scrittrice di cui mi ero innamorato, alla mia amica Annalisa che viveva in quella lontanissima e implausibile Inghilterra, usufruendo dell’unica connessione internet disponibile cioè quella del Nacional, torreggiante hotel tutto mogano e passamanerie retrò (connessione ovviamente di merda, che ci metteva un’ora per farmi leggere due mail e un attimo a strapparmi sensazionali sacramenti, mentre l’addetta mi fissava)? Come mi sono sentito quando passeggiavo con Victor lungo il Malecòn, la Polizia fermava entrambi ma poi si scusava con me e chiedeva i documenti solo a lui, e quando, rientrati a casa, lui si sfogava con sua madre e i cognati e il nipote insieme ai quali viveva in cinquanta afosi metri quadrati, dando in escandescenze al punto che tutti si precipitavano ad abbassar tapparelle in un coro di “cretino, prima o poi ci farei passare dei guai”?
Come mi sono sentito quando, in riunione clandestina con lo sparuto manipolo di amici artisti, lunatici da marciapiede, scrittori senza romanzo espulsi dal consesso comunista ma miei fratelli nella grande patria immateriale della letteratura e disillusi sostenitori dell’unico progetto sostenibile – il Proyecto Varela – cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, e li amavo mentre vaneggiavano dei grandi romanzi epocali che avrebbero scritto quando Cuba se li sarebbe meritati, cioè quando sarebbe stata finalmente libre? Come mi sono sentito quando constatavo le vite grame dei miei amici e delle loro famiglie, il terrore continuo, la violenza e la miseria nera che affliggevano le loro vite di esiliati in patria, eppure, chiudendo gli occhi, contraddittoriamente e vergognosamente, mi rendevo conto che in quei mesi la voglia di vivere mi stava saltando tutta addosso, con foga famelica, come un demone acrobata?
E come mi sentivo quando, pagina dopo pagina, quel libro di strade e amicizie e conversazioni infinite, si rivelava sempre più doloroso? Un libro che più andava avanti, più tornava indietro, e le pagine che mi erano sembrate divertenti lo erano sempre meno, finché a un certo punto tornavo in Italia, a Brescia, a capofitto nella sporta di Omar e nel suo immaginario farmaceutico, perché una notte, Ulyses, un amico, scrittore senza speranza, uno del nostro circolo della maionese, aveva ingoiato due blister interi di Zerinol che gli avevo portato proprio io, me li aveva chiesti, e li aveva buttati giù con due caraffate di rum? L’avevano ricoverato d’urgenza e non ci avevano permesso di andare a trovarlo. Poi sì. Sennonché, arrivati lì, ci avevano detto che si erano sbagliati, niente da fare.
La storia di Omar, invece, me l’ha raccontata sua madre Lilia Rosa, un pomeriggio: le intemperanze giovanili di suo figlio, il campo di rieducazione a Pinar del Rio, Fidel Castro in persona che si era scomodato ed era andato a trovarla per chiederle di stare attenta, il ragazzo doveva mettere la testa a posto, insomma – le aveva detto – con tutto quel che Omar rappresenta… “Perché, cosa rappresenta?” le avevo chiesto io. E Lilia Rosa cominciò a raccontare davvero solo in quel momento. Finì a sera, quando concluse: “Che Omar sia figlio di Che Guevara lo sanno in pochi e lo sospettano in tanti. Tu, adesso, lo sai”.
Quanto agli altri amici, la polizia ne ha arrestati molti, perché condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato. E anche se ci ho provato – tornato in Italia, non ho praticamente fatto altro – non sono mai riuscito ad aiutarli. Ulyses l’ho sentito qualche anno dopo, nel 2008. Io ero ospite al Festival Letteratura di La Paz, lui era fuggito da Cuba e viveva a Santo Domingo. Era davvero lui? Attraverso il telefono la sua voce non era quella che ricordavo. “Non scrivo più, me ne hanno tolto la voglia. Faccio la guardia in un parcheggio. Adesso però ti devo salutare”.
Un amico del gruppo
whatsapp del blog, ha postato questo articolo nella nostra piccola e
divertente comunita'.
Articolo uscito sul
Foglio, quel giornaletto (definizione di Zarlatti) che vende 3 copie
ed e' mantenuto in vita al di fuori di ogni legge del mercato dai
soldi dei contribuenti, i nostri soldi.
L'autore e' poi diventato
uno scrittore, confesso di non conoscerlo, ma non sono esattamente un
fan della letteratura italiana di questo decennio.
Premetto che il pezzo era
piu' lungo, quello che leggete e' uno stralcio credo significativo
del modo di pensare dell'autore.
Parliamo di un ragazzo di
22 anni che decide, bonta' sua, di vivere nella Cuba del 1998,
momento conclusivo del periodo especial.
Sono sbarcato a Cuba un
paio d'anni dopo, conosco la Cuba di quel preciso periodo storico.
Un anno e mezzo, a suo
dire, vissuto a lo cubano in un'Avana complicata dove erano piu' le
cose che mancavano che quelle che si trovavano.
Perche' poi un ragazzo
italiano decida di passare un anno e mezzo a Cuba, in quella Cuba
resta un mistero insondabile ma, come dico spesso, ogni testa e' un
piccolo mondo.
Rimango sempre della mia
idea originale, prima di scegliere un posto in cui penso di fermarmi
per un lungo tempo preferisco conoscerlo a fondo facendo, in un
secondo momento, le mie valutazioni.
Ma parliamo di un ragazzo.
Ognuno di noi sceglie come
compagnia chi ci assomiglia, difficilmente decidiamo di trascorrere
troppo tempo con persone diverse da noi, un conto sono le
frequentazioni di una vacanza, differente sono quelle che possiamo
avere quando decidiamo di risiedere in un paese nuovo.
Personalmente, pur avendo
qualche amico chulito da parque la mia Cuba, cosi' come la mia Italia
e' fatta di gente che ogni mattina si alza dal letto presto per
andare a lavorare, tornando a casa nel tardo pomeriggio quando non di
sera.
Magari non sono del tutto
concordi col regime ma ogni giorno fanno la loro parte per lo
sviluppo del paese e della loro famiglia.
Non frequento “artisti”
a cui qualcuno dovra' pagare sempre la cuenta come avviene da quando
esiste l'umanita'.
I grandi artisti del
rinascimento italiano campavano grazie ai mecenati che li
mantenevano, in cambio di uno spicchio del loro talento.
Conosco, da quasi 20 anni,
uno di artista...2 volte al gabbio per prosineta, ora lavora come
artista per lo stato, 250 pesos al mese per un impegno di uno o al
massimo 2 pomeriggi ogni settimana.
Credete che nell'immenso
tempo libero si sia cercato un altro lavoro per incrementare le
entrate? Col cazzo! C'e' chi lo mantiene, lui si alza alle 11, chiede
cosa c'e' da mangiare e passa il giorno a fare il vago.
Gli artisti che
frequentava l'autore non mi pare si discostino molto da questo
cliche, magari se frequentava albaniles con le mani spesse 3 dita
avrebbe avuto di Cuba una considerazione differente.
Non voglio dire che,
sopratutto in quegli anni, fossero tutte rose e fiori ma io di gente
“oppressa dal regime” non ne conosco.
Magari non si e' in
sintonia con l'attuale forma di governo (noi lo siamo col nostro?)
pero' ogni persona che conosco e frequento fa la sua parte ogni
giorno.
Ai lunatici da
marciapiede, agli scrittori senza romanzo a quelli del circolo della
maionese qualcuno la caldosa nel piatto ce la deve mettere ogni
giorno, magari qualcuno che alle 5 di mattina si alza per andare a
“ruscare” come diciamo in Piemonte.
Il “Progetto Varela”
agognato da questi artisti non era altro che una sorta di Solidarnosc
cubana approvata dalla gusaneria di Miami contro il quale Fidel, nel
2002, mobilito' 9 milioni di persone scese in piazza per appoggiarlo.
Un tentativo “soft” di
mettere in discussione la Rivoluzione messo in atto dai vari Paya e
compagnia cantante.
Sia chiaro...le mie sono
solo opinioni che non fanno giurisprudenza, concludo con alcune frasi
della canzone “I Poeti” di Pierangelo Bertoli.
“Il Poeta e' un uomo
stanco che si sveglia a mezzogiorno
che si affaccia dal
balcone e si guarda appena intorno
insicuro e sempre incerto
si trascina alla sua tana
caffelatte con le uova che
la mamma gli prepara.
I Poeti son dei matti che
non pagano il pedaggio
fanno finta di capire
quando scrivono “coraggio”
ma se c'e' da far la
guerra il Poeta e' giu' in cantina
fa l'amore con la serva e
si scopa la regina.
Il Poeta ha dei segreti
che non dice con nessuno
sono formule di sogno che
gli fan vendere fumo
con quell'aria un po'
sorniona, privilegio dell'artista
ama i gatti, beve vino,
scorda il conto del dentista.”
DAL MIO LIBRO "L'ALTRO LATO DEL BLOQUEO"
RispondiEliminaUNA NOTTE COSI’
Finalmente il grande giorno e' arrivato.
E' un inverno freddo, uggioso.
Il lavoro va' cosi' cosi',il mondo sembra andare in senso contrario da come ci aspetteremo.
Non importa, è ora di andare a Cuba.
Si inizia una settimana prima a mettere cose in valigia, un
regalino, un presente, un pensiero....
Finalmente arriva la mattina della partenza.
La notte e' passata con poco sonno tanta e' la voglia di partire.
E' sempre cosi'.
Non importa se si hanno alle spalle 2 o 20 viaggi, le sensazioni
sono sempre le stesse.
L'autostrada per Milano, l'uscita per Malpensa.
Il solito parcheggio, il breve viaggio col pulmino per arrivare al
terminal 2.
Se non si ha il biglietto dell'aereo e si vola con un charter si cercal'area gruppi per ritirarlo.
Si butta un occhio al movimento, solite cubane con gli occhi tristi,soliti italiani male assortiti.
Una volta mollato il bagaglio al check e' il momento dell'ultimo
caffe' al bar.
Quindi l'attesa, leggendo il giornale e godendosi la trasformazione delle cubane che, lontano dai mariti, ritrovano
l'antica vena.
Il volo e' sempre il solito, con la speranza di non finire accanto a un bambino frignone o a un enorme Mami.
L'arrivo, l'applauso al pilota e poi, come una faina, rapido
all'immigration.
Solita faccia seria del tipo nel gabbiotto, solite domande e solito augurio di buona vacanza.
Si attende il bagaglio buttando l'occhio verso l'uscita a quei
maledetti tavolini per il controllo del contenuto delle nostre
valigie.
Arrivato il bagaglio ci si intrufola in mezzo a un gruppetto che
esce in modo che l'ultimo controllo passi senza problemi e
finalmente....Cuba.
L'assalto dei taxisti.
Il mercanteggiamento fino a quando non trovi chi ti porta a una
cifra accettabile.
Il viaggio in taxi, attraversando il campo cubano.
Dopo mesi di Italia e' un emozione forte.
Rivedere quelle case, la gente che rientra dopo un giorno di
lavoro, i ragazzini a dorso nudo che prendono a bastonate una
pietra fino in seconda base.
Le innumerevoli biciclette, i carretti, le ragazzine con le divise
immacolate, i macheteros che tornano a casa sporchi e sudati,
con lo strumento di lavoro appeso alla cintura.
La gente sull'uscio di casa, senza un cazzo da fare, guardando il
mondo che passa davanti.
Finalmente la citta'.
I brividi riconoscendo le piazze, le strade, i negozi.
Ci si accorge che non e' cambiato nulla, che tutto e' esattamente
come lo avevamo lasciato, come doveva essere, come ce lo
aspettavamo.
La nostra casa de renta, la proprietaria in carne che ti abbraccia
sorridente, la tua camera e pochi minuti dopo...lei che arriva
trafelata.
Ti racconta che ti ha aspettato per mesi accanto al telefono, che
non e' mai "salita" neppure una volta, che ha sempre e solo avuto
te per la testa.
Sorridendo guardi le sue Nike fiammanti, nuove..nuovissime e ti
accorgi che alla fine non ti importa nulla di tutte le mentiras che puo' raccontarti.
Lei e' li'.
Bella come il sole.
Tutta per te.
Fuori c'e' la notte cubana, la notte che hai sognato nei lunghi,
noiosi, giorni d'inverno.
Hai la consapevolezza che la felicita' forse esiste.
Quei seni ambrati grandi e duri premuti contro il tuo petto ne sono una prova.
In fondo non c'e molto di meglio al mondo di una notte cosi.
Anni fa leggevo con passione i racconti della costruzione del PCI a Livorno, quando la “frazione dei puri” (così era chiamata) si staccò dal congresso del PSI dal Goldoni e marciò verso il fatiscente teatro San Marco. Passando per le strade erano acclamati dalle finestre e per le strade dai proletari dei quartieri più popolari come Venezia, dove appunto risiede il Teatro San Marco.
RispondiEliminaPoi, accorsero in tanti a portare qualcosa, chi una bandiera rossa, chi da bere o mangiare. In maniera naturale il popolo si schierava col partito del popolo. E per popolo si intende ovviamente le masse proletarie.
Oggi, lavorando da settimane per la nuova sezione del Partito Comunista - Livorno respiro le stesse cose e mi accorgo di cosa vuol dire in questa città e in un quartiere popolare questo nome e simbolo. Lavoratori chiamano e offrono di sistemare le cose, portano materiale. Si informano.
Tingendo la saracinesca stanani si avvicinavano anziani e più giovani “bimbi cosa ci fate?”, “la sezione del Partito Comunista” “Bene!”, “Bravi, menomale!”, un ragazzo vedendo me dice “cosa ci viene un club del Livorno?”, io “no, la sezione del Partito Comunista” e lui “meglio! Bene dè”.
Le masse sono orfane del loro strumento primario. Nei quartieri popolari, specialmente in chi sa cosa significa, si respira.
Stiamo arrivando!
Lenny
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha inaugurato una nuova raffineria di petrolio binazionale in collaborazione con la Cina dopo aver incontrato nella giornata di giovedì i rappresentanti cinesi al palazzo di Miraflores, nella capitale venezuelana Caracas.
RispondiEliminaLa nuova raffineria che sarà gestita da Sinovensa, una società mista che combina Petroleos de Venezuela (PDVSA) controllata dallo Stato venezuelano e la sua controparte cinese, CNPC, aumenterà la produzione di petrolio da 110.000 barili al giorno a 165.000 barili al giorno.
"Supereremo il blocco, andremo avanti con il sostegno e gli sforzi dei lavoratori", ha dichiarato il ministro del Petrolio e presidente della PDVSA Manuel Quevedo durante una chiamata trasmessa in diretta dal nuovo impianto.
"Questa è la base delle relazioni tra Cina e Venezuela, una cooperazione win-win, rispetto reciproco e dialogo costante", ha aggiunto Maduro.
Anche PDVSA e CNPC prevedono di espandere la produzione in un secondo, portando il numero di bdpd a 230.000.
Secondo un articolo di Bloomberg, un'altra società cinese ha siglato un accordo con PDVSA il mese scorso al fine di incrementare la produzione e contrastare gli effetti dell'ondata illegale di sanzioni economiche statunitensi contro il Venezuela.
La società con sede a Shanghai, Wison Engineering Services Co., ha concordato "di riparare le principali raffinerie del Venezuela in cambio di prodotti petroliferi compreso il diesel", secondo una fonte anonima di Bloomberg.
Purtroppo i compagni no votano più PCI votano lega, PD, 5 stelle, io alle europee ho votato PCI ma ho visto e un voto perso votare PCI, Zio poporco
RispondiEliminaAleardo appena formeranno il partito della borrachera arriverà il tuo momento.
RispondiEliminaVotare per una cosa in cui si crede non è mai un voto perso. Per quanto mi riguarda falce e martello fino a quando esisterà.
RispondiEliminaIl solo perso fra i fumi del vino è il povero Aleardo per il resto condivido in pieno.
EliminaHola Milco, come ha fatto a stare 1 anno e mezzo a Cuba? Parla del 1998 e poi afferma di aver sempre vissuto in pesos tranne una volta dando una propina in euro...gli euro sono entrati in circolazione il 1° gennaio 2002....Alessio
RispondiEliminaMah...sarà uscito ed entrato ogni 2/3 mesi...
EliminaSì avrà fatto un totale di un anno e mezzo a Cuba in vari viaggi...Alessio
EliminaSe frequenti solo fancazzisti è perché sei un fancazzista. Giuseppe
RispondiEliminaNon è una regola fissa ma...succede.
RispondiEliminaPer anni molti andavano e tornavano da S.Domingo con lo stesso aereo col taxista che aspettava ore a Santiago per riportarli a Tunas.
RispondiEliminaGran bel racconto, sarebbe bello se ognuno raccontasse brevemente la storia di come sia iniziata la propria avventura a Cuba.
RispondiEliminaRoberto Gaino
Certe cose è meglio non saperle....😀🤤😝
Eliminahola! alla fine si è fatto l'esperienza che desiderava in una Cuba molto distante da quella attuale. Certo che se si frequentano solo posti per turisti con i soliti "amigos" e vaccone che imbruttisco di anno in anno si avrà sempre una visione molto limitata . chao Enrico
RispondiEliminaSe ascoltassi i chulitos del parque Cuba sarebbe raccontata peggio del Burkina Faso.
RispondiEliminaPREMIER TERZA GIORNATA
RispondiEliminaASTON VILLA-EVERTON 2-0
Primi punti per i miei Villans.
Secondo me molte sono falsità come gli euro che solo bel 2002 sono entrati...io a cuba sono andato in qqueglu anni... C era davvero la fame e se pronunciavi fidel un po forte quasi si mettevano a piangere dalla paura... Milco dici che non c é repressione? Io causa un vicino a 3 quadras controcorrente mi hanno fermato diverse volte senpre c era polizia e controllavano.... Se questa non é repressione... Guarda cosa stanno facendo a Baby Lores...
RispondiEliminaLo so che in queste cose ci inzuppi il pane....
RispondiEliminaGiumiro cosa vuoi che ti dica? Non ci andare più e togli dalla tua vita quello che sembra diventato un incubo.
EliminaMa a me non mi tocca io porto dinero al massimo mi fermano col carro ma non ho mai preso una multa lo q afectan sono i cubani che espressano opinioni differenti... Altrimenti sicuro che non andrei piu
L'impressione e che tutto ti roda...
EliminaConosco 2 italiani sposati da oltre 15 anni con cubane.
Cuba fa loro cagare, non ci vanno da 15 anni, le mogli mandano qualcosa alle famiglie e ci vanno solo loro ogni 4/5 anni.
Ai miei amici di Cuba non frega un cazzo...tu setacci tutti i siti presenti sul web per trovare notizie negative.
Non ti piace? Lasciala perdere e vivi sereno.
facile risolvere la cosa con il dire che a me cuba fa schifo, ma te lo ripeto un altra volta a me cuba mi incanta è la mia seconda patria e non sono tra quei tuoi amici che sparlano di ogni cosa e sopratutto contro i cubani anzi io spesso li difendo, quello che non mi piace è il regime che ha ridotto alla miseria e alla fame il suo popolo.
Eliminatra l'altro porto fatti accaduti a me altro che setacciare il web.
In realtà i miei amici citati di Cuba proprio non parlano.
EliminaGli habla mierda su Cuba tutto possono essere ma non amici.
Beh...il cantante che frigna non mi pare sia tuo cugino...o sbaglio?
Ti saluto lunedì parto per holguín penso di fare un giro a Tunas a ottobre, se ci sei quel periodo fammi un fischio, ciao
RispondiEliminaAleardo vedremo...in ognì caso il bere lo pago io.🤤
RispondiEliminaPorto la carta di credito in previsione di una tua razzia nel bar...
Milco, vedo che anche tu non hai risposta alla mia perplessità
RispondiEliminaCocoloco
Ho risposto, Carlo, alla tua domanda sul perché vivere in quella Cuba per 18 mesi...
RispondiElimina"Ogni testa è un piccolo mondo"
Vivere a cuba in quel periodo con soldi non é tanti diverso da oggi anzi i prezzi erano molto piu bassi i paladares c erano già... Io mi rucordo almeno 3 dalle parti di guanabo il famoso il piccolo dove mangiavo carbonara decente.... Perche dite vivere in quella cuba... Vorrei capire
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EliminaIo dicevo: "non capisco perché é restato 18 mesi a Cuba". Non ho fatto differenze tra la Cuba del 1998 e quella attuale... semplicemente perché non risolverebbe la mia perplessità sul perché é rimasto tanto tempo sull'isola
Ma visto che vorresti capire... ti dico che La Habana di quei tempi era molto ma moooolto diversa da quella attuale... anche con i soldi come dici tu
Adesso nella capitalll trovi TUTTO e comunicare con il mondo é piú facile ed economico (forse hai dimenticato le cabine telefoniche dove si parlava pochi minuti con una scheda da 10$)
COCOLOCO
Perché i cubani non avevano internet, non potevano entrare negli hotel, non potevano essere proprietari di case, di auto ,per uscire serviva la carta blanca i negozi erano vuoti....devo continuare?
RispondiEliminama stiamo parlando di un italiano e non di cubani, a parte internet tutto quello che dici non c'azzecca con il vivere di un italiano alla cuba di quei tempi...io sono andato nei negozi e quello che cercavo ho trovato spaghetti barilla per una pasta con aragosta anzi tutto costava di meno
EliminaWolverhampton-Burnley 1-1
RispondiEliminaPareggio dei nostri avversari al 90esimo
Torino (3-4-1-2): Sirigu; Izzo, Bonifazi, Bremer; De Silvestri, Rincon, Baselli, Ansaldi; Lukic; Zaza, Belotti. A disp. Rosati, Gemello, Ansaldi, Djidji, Singo, Meitė, Berenguer, Millico, Parigini, Rauti. All. Mazzarri. Sassuolo (4-3-1-2): Consigli; Toljan, Marlon, Ferrari, Rogerio; Bourabia, Obiang, Locatelli; Traoré; Caputo, Boga. A disp. Pegolo, Russo, Goldaniga, Gravillon, Peluso, Muldur, Tripaldelli, Duncan, Djuricic, Mazzitelli, Brignola, Raspadori. All. De Zerbi
RispondiEliminaNkoulou neanche in panca...il mandrogno invece che comprare inizia a vendere...la solita storia.😡😡😡
RispondiEliminaZazaaaaaaa 1-0💪
RispondiEliminaZaza 2-0 dopo un altro gol suo annullato 💪💪
RispondiEliminaGol Sassuolo 2-1
RispondiEliminaUna bella Rometta che ci fa sognare. Ottimo spirito di squadra e di abnegazione: Juan Jesus, a dir poco commovente, che a tratti tornava e si improvvisava persino difensore; Fazio, nonostante il noto problema mentale di personalità multiple che lo affligge (tra di esse abbiamo riconosciuto la ballerina, lo scippatore, il pizzicagnolo, il pugile suonato ma non il calciatore) che inseguiva avversari a caso chiedendogli l’ora; Fonseca che con personalità e fermezza, a fine partita ha imposto alla dirigenza di togliere Vito Scala e Bruno Conti dal mercato. Così si costruiscono i trionfi. Forza Roma e buon derby!
RispondiEliminaALESSANDRO ZARLATTI DA FB